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Management pubblico e teoria principale agente dentro la scatola nera della PA

 

1. Come ho argomentato nel post del 10 Dicembre 2023 si può ragionevolmente ritenere superata la “dicotomia” tra politica e amministrazione che, di fatto, è un elemento portante del modello di burocrazia ideale tratteggiato da Max Weber (l’analista politico statunitense Woodrow Wilson, ponendosi su posizioni ben diverse da quella di Weber, parlava espressamente di Politics-Administration Dichotomy). [1]
2. Il superamento della “dicotomia” fra politica e amministrazione implica che non è corretto considerare la PA come una scatola nera al cui interno si muovono dei “burocrati” nel senso tradizionale del termine, “senza volontà” e completamente asserviti:
• al rispetto degli indirizzi strategici e delle scelte di politica pubblica del decisore politico;
• al mero rispetto della norma.
Il modello di riferimento realisticamente da considerare per capire meglio la capacità amministrativa delle Istituzioni pubbliche, anche sull’abbrivio dell’affermazione di alcuni principi centrali nel c.d. New Public Management, è quello che Andrea Lippi – docente presso l’Università di Firenze, fra i massimi esperti italiani di analisi delle politiche pubbliche – ha battezzato, nel suo saggio del 2007 sulla valutazione delle politiche pubbliche, paradigma “debole” del policy making, o governance. [2]
3. Nel paradigma “debole” del policy making si deve assolutamente entrare dentro la scatola nera della PA, esaminare attentamente le varie articolazioni interne della macchina amministrativa e considerare i comportamenti strategici del personale pubblico. In altri termini, è necessario aprire la scatola nera della macchina amministrativa e considerare i “burocrati” per quelli che sono, ossia persone con delle volontà, delle strategie e dei sistemi di valori che ne condizionano motivazioni e operato.
La riflessione che ne consegue è che:
• la leadership può essere esercitata ai vari livelli organizzativi della PA (si veda la figura 1);
• la leadership non va intesa come esercizio del potere di scelta del decisore politico (che è intitolato all’esercizio del “potere legittimo” teorizzato da Weber). La ragione risiede nel fatto che il paradigma “debole” del policy making si fonda sull’idea che nelle democrazie mature il processo decisionale pubblico si è aperto nel tempo a più “attori”. Come chiarisce Lippi nel saggio citato sopra (v. p. 48), «la governance delle politiche pubbliche [….] connota uno stato dove la responsabilità di chi decide e di chi attua è diffusa, e quindi problematica, poiché nell’indeterminatezza e nella fluidità dei rapporti tra gli stakeholder diviene addirittura ancora più diffusa la catena della responsabilità»;
• i dirigenti in posizione apicale nella PA possono incidere sulle scelte pubbliche dei decisori politici.

Fig. 1 – Paradigmi “debole” e “forte” di policy-making a confronto

4. Se si condivide questa impostazione, vanno considerati più livelli di relazioni a cui applicare la c.d. “teoria principale agente”, quando, originariamente, questo strumento di analisi era stato applicato dal filone New Public Management alle relazioni fra decisore politico (considerato quale principale) e dirigente apicale della PA (agente).
Come magistralmente argomentato da Vedung (1997), il paradigma “debole” del policy making si caratterizza come una catena di principali e agenti. [3]
Peraltro, nel caso di interventi “a regia regionale” – in sintesi quelli per i quali la responsabilità attuativa ricade su soggetti esterni alle Istituzioni pubbliche che gestiscono i Programmi comunitari – va considerata anche la relazione di agenzia fra soggetti gestori dei Programmi (Autorità di Gestione) e soggetti attuatori.
5. Se si accetta l’idea che vada superato l’archetipo weberiano del burocrate “senza volontà” e si debba considerare il comportamento strategico di tutto lo staff della PA, allora bisogna tenere anche conto degli oneri amministrativi impliciti (inefficienze) legati a:
• le strategie individuali messe in atto per rafforzare capacità negoziali e possibilità di influenzare a proprio vantaggio la condotta di tutti gli altri attori (decisori politici e staff amministrativo). Nella letteratura, a partire da un contributo di Milgrom e Roberts (1990), i relativi costi sono denominati “costi di influenza”; [4]
• la necessità per i principali di gestire e mitigare i possibili comportamenti opportunistici degli agenti (anche considerando, per le ragioni appena esposte, che nel momento in cui si amplia e indebolisce la catena delle responsabilità, molti attori sono al tempo stesso principali e agenti). Tali costi vengono indicati, in genere, come “costi di transazione” (“costi di contrattazione” e costi per l’enforcement dei contratti).
6. La teoria principale agente si fonda sull’idea che ogni relazione tra due operatori può essere interpretata come una transazione in cui vi è un principale che affida delle funzioni a un agente, in cambio della ricompensa pattuita a fronte del raggiungimento di certi risultati e che una siffatta relazione di delega possa facilmente danneggiare il principale a causa di due asimmetrie informative che lo penalizzano:
• non ha un’informazione completa su etica, competenze e pro-attività dell’agente (hidden information che comporta il problema della c.d. “selezione avversa”);
• non riesce a controllare completamente il comportamento dell’agente, il quale, pertanto, potrà mettere in atto dei comportamenti opportunistici ai suoi danni (hidden action che comporta il problema del c.d. “azzardo morale”). [5]

Fig. 2 – Teoria Principale Agente

 

 

7. Come evidenzia Lippi nel suo saggio del 2007 già citato (v. p. 47), «l’agente deve essere accountable dei risultati verso il proprio principale» e, in una PA in cui molti attori sono al tempo stesso principali e agenti, si profila un’altra funzione molto rilevante della valutazione delle politiche pubbliche: quella di far emergere e far capire meglio le relazioni principale agente. Lippi la definisce «un’operazione valutativa in funzione di rendicontazione democratica verso i diritti di cittadinanza» (v. p. 49).

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[1] Sui concetti di “dicotomia” fra politica e amministrazione e di leadership pubblica si vedano: Peters B.G. (1978); The politics of bureaucracy: a comparative approach; Longman, New York; Ridolfi M. (2019); La distinzione tra politica e amministrazione nella struttura e nell’organizzazione della PA; Rivista Italiana di Public Management, Vol. II n. 1; Lippi A. (2022); Modelli di Amministrazioni Pubbliche, Il Mulino, Bologna; Saporito R. (2023); Public leadership. Cinque modi di fare il dirigente pubblico, EGEA, Milano.
[2] Cfr.: Lippi A. (2007); Valutazione delle politiche pubbliche, Il Mulino, Bologna; Belligni S. (2005); Ms Governance, I presume; Meridiana, N. 50/51; pp. 35-52.
[3] Vedung E.O. (1997); Public Policy and Program Evaluation; Transaction, New Brunswick, New Jearsey.
[4] Milgrom P., Roberts J. (1990); “Bargaining Costs, Influence Costs and the Organization of Economic Activity”, in: Alt J.; Shepsle K. (eds.), Perspectives in Positive Political Economy, Cambridge UP, Cambridge.
[5] Questi fenomeni si riscontrano sia nel caso di rapporti di delega fra un principale e un agente, sia nelle relazioni di compravendita di beni e servizi. Per queste relazioni il compratore è colui che si trova nella condizione di principale; egli ha un gap informativo che riguarda l’effettiva utilità e qualità dei beni acquistati. L’asimmetria informativa a discapito del compratore-principale e i possibili comportamenti fraudolenti del venditore-agente possono comportare, al limite, che un mercato di un dato bene scompaia completamente (non si effettuano più scambi di beni e servizi), come ha dimostrato magistralmente Akerlof con il suo saggio sul “mercato dei bidoni”. Cfr. Akerlof G. (1970), The Market for “lemons”. Uncertainty and Market Mechanism; Quaterly Journal of Economics, Vol. 84, pp. 488-500.

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