La deriva dell’economia italiana fra mancate riforme e cieca austerità fiscale

 “In most countries the minister – let alone the Prime Minister –
who is both interested and experienced in
large scale organizational change is a rare creature”
Christopher POLLIT, 2012 [1]

L’economia italiana: “lost in austerity”

Il 25 febbraio scorso, mentre il Presidente del Consiglio incaricato Renzi attendeva, alla Camera dei Deputati,  la fiducia per il suo nuovo Governo, a Bruxelles il Commissario uscente agli Affari Economici e Finanziari Rehn presentava le Previsioni economiche invernali della Commissione.
Tali Previsioni segnalano che l’intera UE e la Eurozona hanno ripreso, seppure con passo lento, il percorso della crescita economica: si stima un + 1,2% nel 2014 e un +1,8% nel 2015 per l’Eurozona del Prodotto Interno Lordo (PIL). Le stime previsionali, invece, sono ampiamente meno positive per l’Italia (si stima un + 0,6% nell’anno in corso e un + 0,8% nel 2015 “a politiche invariate”).
Questi dati sulle prospettive di debole crescita economica del Paese hanno anticipato di alcuni giorni la diffusione, da parte dell’ISTAT, dei dati aggiornati sui Conti Economici Nazionali. L’ISTAT ha rilevato per il 2013 una flessione del Prodotto Interno Lordo a prezzi di mercato dello 0,4% rispetto all’anno precedente. Qualora vi siano dubbi su come la stretta fiscale degli anni scorsi – generalmente indicata in modo più neutrale come “aggiustamento dei conti pubblici” – abbia degli effetti deflattivi su consumi e investimenti, si evidenzia che fra il 2012 e il 2013 si è registrata un flessione del 2,2% dei consumi finali nazionali e del 4,7% degli investimenti fissi lordi.
A livello settoriale si registrano delle flessioni del valore aggiunto particolarmente significative per l’industria in senso stretto (- 3,2%) e per le costruzioni (- 5,9%). [2]
La crisi che attanaglia il sistema produttivo italiano (caratterizzato, peraltro, da una ben nota debole propensione all’innovazione, confermata dal più recente rapporto della Commissione Europea Innovation Union Scoreboard 2014 presentato il 4 marzo scorso), inevitabilmente, si riflette in un inasprimento della crisi occupazionale, che sembra senza fine. Secondo i dati più recenti dell’ISTAT, il tasso di disoccupazione ha raggiunto il picco del 12,2% nella media del 2013 (va aggiunto anche che il tasso di disoccupazione stimato dall’ISTAT si attesta sul 12,9% a gennaio 2014). Il quadro occupazionale così fosco, come è ben noto, è reso ancor più drammatico dall’elevatezza della disoccupazione giovanile (in continua crescita da diversi anni, come evidenzia il Grafico riportato sotto e che si attesta, nella media 2013, sul 40%), dall’estensione della piaga dei NEET (“giovani” che non sono occupati e neanche seguono attività formative e/o di riqualificazione professionale) e dal crescente numero di individui in età lavorativa che hanno ormai rinunciato a cercare attivamente un’occupazione [3].

Grafico – Il trend di crescita della disoccupazione giovanile (15-24 anni) in Italia

ISTAT Tasso di disoccupazione giovanile 15-24 anni

ISTAT Tasso di disoccupazione giovanile 15-24 anni

Fonte: Istat (grafico disponibile all’indirizzo web: www.istat.it/it/lavoro)

Il 27 febbraio, sempre a Roma, il Presidente della Corte Costituzionale Gaetano Silvestri ha tenuto una importante Relazione sull’attività della Corte nel 2013, rimarcando come da svariati anni la Corte sia impegnata principalmente nel dirimere controversie fra Governo centrale e Regioni, a causa del vulnus dell’art. 117 novellato della Costituzione, come modificata dalla L.C. 3/2001.
Nella formulazione attuale, infatti, la suddivisione di poteri fra livelli giurisdizionali stabilita dall’art. 117, si caratterizza in negativo per l’eccessivo numero di potestà legislative che sono oggetto di competenza “concorrente”, quando invece è ben noto che un sistema di Multi Level Governance “verticale” è tanto più efficiente quanto più sono chiare e ben separate le competenze attribuite ai vari livelli e quanto migliori sono le relazioni inter-istituzionali. [4]
L’articolo intende evidenziare come, nella seconda metà di febbraio, si è andato profilando un particolare “trianglolo istituzionale”, composto da Commissione dell’UE, Governo italiano e Corte Costituzionale, a cui sempra corrispondere una sorta di “gioco di sponde” su cui basare una strategia di ampio respiro di rilancio del sistema socio-economico italiano (si veda lo schema riportato sotto).
Al centro di questo “gioco di sponde” vi sono le tanto agognate e dibattute riforme (istituzionali e amministrative).

Triangolo delle riforme

Triangolo delle riforme

Le riforme istituzionali ai tempi dell’austerità fiscale

Il nuovo Governo italiano ha voluto assolutamente accreditarsi presso la cittadinanza e presso le Camere come un Governo riformista, ponendo al centro  della sua strategia generale una riforma ambiziosa del sistema istituzionale che prevede, inter alia, l’abolizione del Senato come lo abbiamo conosciuto finora e anche delle Province. Alle riforme dell’assetto istituzionale, il nuovo Governo intende accompagnare la riforma della legge elettorale e anche della Pubblica Amministrazione.
Le riforme dell’assetto istituzionale e della legge elettorale, come appena accennato, sono richieste autorevolmente anche dalla Consulta.
Infine, le riforme – del sistema istituzionale e, soprattutto, del sistema socio-economico – sono anche esplicitamente poste dalla Commissione come “merce di scambio” a fronte della concessione di un allentamento degli stringenti vincoli sulle finanze pubbliche italiane, ex Patto Stabilità e Crescita e Fiscal Compact.
In altri termini, per il nuovo Governo  si profila una “single exit situation”, per cui solo tenendo fede agli impegni assunti in merito alle riforme, potrà negoziare con la Commissione un allentamento temporaneo dei vincoli fiscali e, di conseguenza, potrà assumere nella seconda metà dell’anno la Presidenza dell’Unione avendo le carte in regola per tentare di avviare un percorso di graduale allentamento di quella cieca austerità fiscale seguita testardemente dai tecnocrati di Bruxelles per anni.
Il parere di chi scrive è che quella cieca austerità fiscale incide fortemente sulla debole crescita economica dell’Europa, soprattutto nei paesi periferici che registrano parimenti maggiori criticità strutturali, come lo scorso anno hanno riconosciuto anche gli economisti del Fondo Monetario Internazionale, ma è ampiamente parte anche della crescente disaffezione dei cittadini per il progetto di integrazione europea. Non è un caso che gli stessi tecnocrati di Bruxelles attendono con grande preoccupazione le elezioni per il Parlamento Europeo del 25 maggio.
Ciò detto, la realpolitik impone al Governo italiano di seguire una via negoziale con l’UE e di avanzare credibili riforme interne, a fronte della richiesta di rivedere il c.d. “European consensus”, fondato su una discutibile austerità fiscale e sull’imposizione ai Paesi periferici di riforme, anch’esse discutibili solo per il semplice fatto di non tenere conto del contesto in senso lato dei vari Stati Membri.
In questa cornice, la volontà del nuovo Governo italiano di superare il bicameralismo nella sua versione attuale – si ragiona attualmente su un Senato “delle autonomie” assimilabile al Bundesrat tedesco – e di abolire le Province è ampiamente condivisibile.
Ambedue queste riforme, tuttavia, dovrebbero essere parte di un disegno di riforma del Titolo V più ampio che intervenga sull’articolo 114 e sull’articolo 117, in modo da:

  • restituire al Governo centrale la dignità di baricentro istituzionale, in quanto autorità sovraordinata rispetto alle Regioni e alle Autonomie Locali, e
  • delineare una suddivisione “multilivello” delle responsabilità legislative ed esecutive più chiara e in cui vengano ridotte quelle oggetto di “competenza concorrente”.

Appare certamente condivisibile anche la volontà del Governo di semplificare le procedure di gestione e migliorare la performance di una Pubblica Amministrazione italiana che, in genere, risulta troppo legata al rispetto delle prassi amministrative e poco orientata alla soluzione dei problemi di imprese e cittadini.
Nel merito, tuttavia, si possono avanzare delle riserve.
In primo luogo, se da un lato è vero che la burocrazia italiana, sovente, si rileva un fardello insopportabile sia per il sistema delle imprese sia per i cittadini, è parimenti vero che negli ultimi venti anni si sono succedute varie riforme della PA. Appare discutibile, pertanto, che ogni nuovo Esecutivo sia lesto nell’annunciare delle riforme della PA senza premurarsi di avviare in via preliminare una seria ed attenta valutazione degli effetti delle precedenti riforme.
Un altro elemento di criticità emerso nitidamente nelle precedenti tornate di riforme della PA è che tali riforme vengono avvertite dalle Autonomie Locali e dalle Regioni, ma anche da dirigenti e funzionari pubblici,  come riforme imposte dall’alto in modo autocratico. In altri termini, nelle precedenti legislature il Governo centrale ha imposto il “New Public Management” e la “spending review”  senza che vi sia stato un approfondito confronto fra livelli di governo e fra “politici” e “burocrati” sul disegno complessivo del processo di riforma, sugli interventi specifici e anche sullo stesso sistema di indicatori da adottare per la valutazione dei risultati (in primis, gli indicatori di performance).
In questa luce appare discutibile il modo in cui, nella fase attuale, il nuovo Governo ha annunciato l’ennesima riforma della PA. In linea di principio sono tutti d’accordo sulla necessità di migliorare la performence della PA italiana e di contrastare gli sprechi. Ma nel concreto, questo cosa significa? E soprattutto, non sarebbe opportuno, prima di intervenire nuovamente con interventi già attuati in passato, cercare di capire quali siano stati gli interventi realmente efficaci? O anche, non sarebbe opportuno capire meglio prima quali siano le resistenze “esterne” ed “interne” alla PA che potrebbero rallentare certi interventi o pregiudicarne gli effetti sperati?
Appare invece confortante la nomina a Segretario generale della Presidenza del Consiglio di Mauro Bonarretti, ex Direttore Generale del Comune di Reggio Emilia che conosce molto bene la PA italiana e che, negli anni scorsi, ha pubblicato degli interventi su aspetti positivi e negativi di precedenti riforme della PA e della “spending review” ampiamente condivisibili. [5]

 Alcuni riferimenti bibliografici

[1] Si veda: POLLIT C. (2012), Lacunae. Evaluating Public Management Reform, in “Rassegna Italiana di Valutazione”, Anno XVI, 53-54 (Pollit è professore emerito presso il Public Management Institute dell’Università Cattolica di Lovanio).
[2] Si veda: ISTAT, Prodotto Interno Lordo, Indebitamento netto e Saldo primario delle Amministrazioni Pubbliche Anni 2011-2013, Roma, 3.03.2014
[3] Si vedano: ISTAT, Occupati e disoccupati. Anno 2013, Roma, 28.02.2014 e ISTAT, Occupati e disoccupati. Gennaio 2014. Dati provvisori, Roma, 28.02.2014.
[4] Sul sistema di MLG “verticale” e sui fattori alla base della sua efficienza, si vedano: MARKS  G., HOOGHE L. (2004), Contrasting Visions of Multi-Level Governance, in BACHE I, FLINDERS M. (eds.), Multi-Level Governace, Oxford UP, Oxford; BAGARANI M., BONETTI A. (2005), Politiche regionali e Fondi Strutturali. Programmare nel sistema di governo della UE, Ed. Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ)
[5] Si vedano: BONARRETTI M. (2009), Lo spreco. Origine, rimedi e misure della spesa improduttiva nei Comuni, in “LabsusPaper” N. 14/2009, (www.labsus.org); BONARRETTI M. (2012), L’uniformità punitiva, in “Una città”, n. 199 (www.unacitta.it).

 

 

 

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