Riforma del terzo settore, organizzazioni ibride e normativa sulle startup innovative a vocazione sociale

‘The hybrid nature
of social enterprise
is an analytical truth
that follows from
the composite term itself’
Wolfang GRASSL (2012, p. 39)

Riforma del terzo settore e “organizzazioni ibride”

Esperti e commentatori vari sono abbastanza concordi nel ritenere che il confronto parlamentare sulla riforma del terzo settore italiano sia ormai in un fase di stallo. [1]

Presidenza del Consiglio

Presidenza del Consiglio

Eppure, dentro e fuori del Parlamento, qualcosa si muove.

A mio modesto avviso il confronto parlamentare, e anche il dibattito a latere, sono rimasti un po’ invischiati in una visione un po’ tradizionale del terzo settore italiano, perdendo di vista alcuni cambiamenti molto rilevanti nel contesto socio-economico e anche in quello delle politiche per la crescita del paese che, indirettamente, incidono su perimetro ed elementi costitutivi del terzo settore, così come delineati più compiutamente dal c.d. “pacchetto legislativo sulla solidarietà” del 1991. [2]

Da un lato, infatti, è certamente vero che le riforme e la politica industriale del Paese scontano la mancanza una adeguata dotazione di risorse dedicate, riconducibile in primo luogo ai discutibili vincoli di bilancio europei.
Al tempo stesso, è parimenti vero che gli ultimi Esecutivi hanno operato alacremente sul quadro legislativo delle politiche per la crescita e, di riflesso, hanno anche inciso indirettamente su una vasta area di organizzazioni “private” orientate alla produzione di beni e servizi di pubblica utilità che, ormai, va ben oltre il perimetro del terzo settore. [3]

Dal “pacchetto legislativo sulla solidarietà”, infatti, è ormai passato un quarto di secolo. Sia il dibattito sul terzo settore sia lo stesso legislatore italiano, pertanto hanno avuto modo di registrare, a livello internazionale, una vasta proliferazione di “organizzazioni ibride” che, pur avendo natura giuridica privata, fondano la loro mission sul raggiungimento obiettivi di natura ideale e/o sociale (organizzazioni private a vocazione sociale). [4]

Il legislatore italiano ne ha tenuto conto, in particolare, con l’introduzione nel 2006 di una figura giuridica ad hoc denominata “impresa sociale”. Tale figura giuridica, normata dal D.Lgs. 155/2006, è stata informata alla legislazione e all’esperienza concreta delle cooperative sociali. [5]
Il legislatore ha tenuto parimenti conto di quelle che vengono generalmente individuate come dimensioni chiave del modello europeo di “impresa sociale”:

  • dimensione imprenditoriale (le imprese sociali devono svolgere in modo continuativo un’attività produttiva),
  • dimensione sociale (le finalità sociali devono prevalere su quelle economiche),
  • dimensione partecipativa del modello di governance (processi decisionali informati al coinvolgimento di membri della base sociale e altri stakeholders). [6]

Le Startup Innovative A Vocazione Sociale e la Circolare del MISE N. 3677/C del 20 gennaio 2015

bookshelf-1082309_640A parere di chi scrive, in modo indiretto, la legislazione e gli interventi di sostegno per il settore delle organizzazioni “private” a vocazione sociale hanno compiuto un rilevante passo in avanti con l’introduzione nell’ordinamento delle Startup Innovative A Vocazione Sociale (SIAVS), grazie al Decreto Crescita 2.0 del Governo Monti (D. L. 179/2012, convertito con L. 221/2012) e, soprattutto, con la Circolare N. 3677/C del Ministero dello Sviluppo Economico datata 20 gennaio 2015 che ha modificato la procedura di registrazione di tali startup innovative alla Sezione speciale del Registro delle imprese.
Andando con ordine:

  • come ricordavo nel mio post del 5 febbraio, il Decreto Crescita 2.0 ha introdotto la figura di una nuova forma di impresa (startup innovativa) senza prevedere in via generale limitazioni settoriali all’esercizio dell’attività produttiva,
  • limitazioni settoriali, invece, sono previste per la figura delle Startup Innovative a Vocazione Sociale (SIAVS), disciplinate dall’art. 25 comma 4. Tali startup, infatti, possiedono i requisiti generali di tutte le startup innovative, ma sono vincolate ad operare negli stessi settori già previsti per le “imprese sociali” dall’art. 2, comma 1 del D.Lgs. 155/2006 (assistenza sociale, assistenza sanitaria ed altri), [7]
  • la Circolare N. 3677/C del MISE (20 gennaio 2015) e la Guida del MISE per start up innovative a vocazione sociale alla redazione del “Documento di Descrizione dell’Impatto Sociale (data 21 gennaio 2015 e curata dalla Segreteria Tecnica del Ministero), introducono una ulteriore “condizionalità” per le SIAVS per poter accedere agli incentivi fiscali maggiorati di cui all’art. 29 del Decreto Crescita 2.0. Le SIAVS devono dimostrare il loro “impatto sociale” sulla base di metodiche e indicatori esplicitati nella suddetta Guida.

A mio modesto parere, non stiamo più parlando di una norma amministrativa che perfeziona le procedure pubbliche di registrazione e di pubblicità delle SIAVS. Stiamo a questo punto parlando di un tassello fondamentale dell’ampio dibattito sulla particolare natura delle organizzazioni ibride a vocazione sociale e dei motivi per i quali dovrebbero beneficiare di un favor amministrativo e fiscale.
Negli anni Ottanta e Novanta in genere si indicavano tali organizzazioni come organizzazioni non profit (o senza scopo di lucro) proprio per la centralità in questo dibattito del vincolo di non distribuzione dei profitti. Il dibattito e il legislatore hanno poi introdotto altri vincoli.
Per certi versi il dibattito sul contributo al benessere collettivo di tali organizzazioni (e, di riflesso, sulle clausole condizionali per l’accesso a incentivi di sostegno specifici), grazie alla Circolare del MISE, si chiude con l’introduzione di quella che considero la clausola più importante. Mi riferisco appunto alla richiesta alle SIAVS (le future “imprese sociali” quando si saranno consolidate sul mercato) di dimostrare il loro impatto sociale.
Il mio umile parere è che questo è un elemento di cui il dibattito in Parlamento sulla riforma del terzo settore non può non tenere conto.

Su queste ultime considerazioni è assolutamente necessario tornare presto con nuovi interventi su questo blog, così che possa spiegare meglio la mia posizione.

*******

[1] Come evidenzia il post, concordo pienamente con Roberto Randazzo quando scrive in un articolo pubblicato su VITA del 12 gennaio 2016 (“Impresa sociale. Qual è la direzione giusta?”): «con la ripresa dei lavori parlamentari nelle prossime settimane si riaprirà il dibattito sul percorso di riforma del Terzo Settore , in questo ambito, una parte rilevante sarà legata ai ragionamenti relativi al rinnovamento delle forme di imprenditoria sociale».
Quello che rimarco è che uno dei “ragionamenti” dovrà necessariamente riguardare la questione del legame fra stima e rendicontazione dell’impatto sociale e incentivi fiscali per le imprese sociali.
[2] “Legge quadro sul volontariato” (L. 266/1991) – GURI, 22 agosto 1991, n. 196.
“Disciplina delle Cooperative sociali” (L. 381/1991) – GURI 3 dicembre 1991, n. 283.
[3] Per un inquadramento dei molteplici interventi degli ultimi Esecutivi per favorire l’avvio e la crescita delle imprese si rinvia alle seguenti Relazioni del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE):

[4] Su questo tema si vedano i seguenti contributi:
Grassl W. (2012), Business Models of Social Enterprises. A design approach to hybridity, in ‘ACNR Journal of Entrepreneurship Perspectives’, 1;1, pp. 37-60
Haigh N., Hoffman A.J. (2012), Hybrid organizations: the next chapter of sustainable business, in ‘Organisational Dynamics’, 41, pp. 126-134
Hoffman A.J., Badiane K.K., Haigh N. (2012), Hybrid organizations as agent of positive social. Bridging the For-profit and Non-profit divide, in Golden-Biddle K., Dutton J., Using positive lens to explore social change and organisations: building a theoretical and research foundation, London – New York, Routledge
[5] Questo è il motivo per cui il post non tratta dell’introduzione recente nell’ordinamento giuridico italiano delle Benefit Corporations. Il post si concentra sull’evoluzione nella direzione imprenditoriale di organizzazioni senza scopo di lucro. Le Benefit Corporations, invece, si possono considerare delle figure giuridiche direttamente funzionali a un modello legislativo e di politica economica, qual è quello statunitense, in cui si presume che le organizzazioni private a finalità commerciali si possano fare carico delle istanze di benessere e qualità della vita della collettività. Personalmente ho delle serie riserve sulla presunta vocazione “public benefit” delle moderne imprese capitalistiche. E, quindi, ho ampie riserve sugli impatti sul benessere collettivo dell’introduzione in Italia della figura delle Benefit Corporations.
[6] Si vedano European Commission (2011), Social Business Initiative. Creating a favourable climate for social enterprises, key stakeholders in the social economy and innovation, Com (2011)682 final, Brussels, European Commission (2013), A map of social enterprises and their eco-systems in Europe, Brussels
[7] Tali settori, per completezza, sono: assistenza sociale; assistenza sanitaria; assistenza socio-sanitaria; educazione, istruzione e formazione; tutela dell’ambiente e dell’ecosistema; valorizzazione del patrimonio culturale; turismo sociale; formazione universitaria e post-universitaria; ricerca ed erogazione di servizi culturali; formazione extra-scolastica, finalizzata alla prevenzione della dispersione scolastica ed al successo scolastico e formativo; servizi strumentali alle imprese sociali.

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