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Fondi Strutturali e politiche per la ricerca e l’innovazione. A cosa servono davvero le Smart Specialisation Strategies regionali?

Le condizionalità ex ante per i Fondi Strutturali e le Smart Specialisation Strategies

Questo contributo muove dalla lettura di tre rilevanti Guide disponibili sul portale di knowledge sharing S3 Platform inerente l’approccio alla formulazione delle strategie di innovazione place-based denominato Research and Innovation Smart Specialisation Strategies (RIS3):
European Commission-JRC; Guide to Research and Innovation Strategies for Smart Specialisations (RIS3), 2012;
European Commission-JRC; Regional policy for smart growth of SMEs. Guide for Managing Authorities and Bodies in charge of the development and implementation of Research and Innovation Strategies for Smart Specialisations, 2013;
European Commission-JRC; Montoring Mechanisms for Smart Specialisation Strategies, 2015. [1]

Questo approccio si è meritato un portale dedicato (S3 Platform), coordinato a livello scientifico dal Joint Research Centre (JRC) della Commissione Europea ed ha davvero suscitato un ampio dibattito fra gli studiosi, per il fatto che la formulazione di “strategie” nazionali e regionali informate a questo approccio è stata inserita nella base giuridica dei Fondi Strutturali e di Investimento Europeo (Fondi SIE) quale condizionalità ex ante per l’approvazione dei programmi cofinanziati dai Fondi Strutturali. [2]
Sia il Governo centrale sia le Regioni, di conseguenza, hanno dovuto predisporre delle “strategie di specializzazione intelligente”, informate a questo approccio e fortemente incidenti sul disegno strategico dei Programmi 2014-2020 cofinanziati dai Fondi SIE.
Tutte le Regioni hanno dovuto approvare una RIS3 regionale, “conforme alle caratteristiche dei sistemi di ricerca e di innovazione di livello nazionale e regionale” (come indica l’Allegato XI al Reg. (UE) N. 1303/2013). A livello nazionale è stata adottata la Strategia Nazionale di Specializzazione Intelligente (SNSI), approvata dalla Commissione Europea nell’aprile 2016.

Seguendo la Guida della Commissione del 2012 si può dire, in estrema sintesi, che l’applicazione di tale paradigma alla formulazione dei Programmi pluriennali di spesa cofinanziati dai Fondi SIE è volta a garantire che tutte le Autorità di Gestione regionali perseguano una adeguata concentrazione tematica delle risorse finanziarie su quei “domini scientifico-tecnologici” di ogni regione a più elevato valore aggiunto e/o che risultino maggiormente distintivi del tessuto produttivo regionale.

Tre aspetti metodologici critici per l’efficacia delle RIS3 regionali

Un primo aspetto metodologico molto importante da rimarcare, fin qui trascurato dalle Regioni, è che questo approccio non richiede una concentrazione delle risorse finanziarie sui settori produttivi (secondo la ben nota classificazione NACE-ATECO dei settori di attività), ma su dei “domini scientifico-tecnologici”, anche indicati nella letteratura come “ambiti scientifico-tecnologici” o, più semplicemente, “ambiti/aree di specializzazione”). Le RIS3, pertanto, si discostano dalle politiche per la R&I e industriali del passato sia per questo aspetto, sia per il fatto di abbracciare una visione ampia dell’innovazione:
• sul versante degli input (sono necessari investimenti in R&I, ma anche investimenti formativi innovativi per ampliare la disponibilità di nuovi skills e soprattutto la creatività);
• sul versante degli output (l’innovazione deve portare a nuovi processi produttivi e nuovi prodotti, ma anche a nuove pratiche sociali – innovazione sociale – e a nuovi modelli di business).
Come ha magistralmente rimarcato, in un contributo abbastanza recente, il prof. Iacobucci dell’Università Politecnica delle Marche:
• «l’attuazione della S3 richiede alle Regioni di identificare gli ambiti tecnologici in cui vi sono maggiori probabilità di raggiungere o mantenere un vantaggio competitivo e, quindi, di concentrare le politiche per l’innovazione in questi ambiti […] queste idee si basano su due presupposti: a) che il raggiungimento di una massa critica di risorse è essenziale per ottenere risultati nell’attività di ricerca e sviluppo; b) che la specializzazione regionale mostra un alto grado di path-dependence per cui la diversificazione può essere conseguita solo in aree che sono strettamente legate alla base di conoscenza esistente)»;
• «l’individuazione di domini tecnologici piuttosto che di settori produttivi è funzionale ad uno dei cardini della S3, e cioè quello di favorire i collegamenti fra ricerca e innovazione. Tali collegamenti sono più evidenti se riferiti ad ambiti tecnologici piuttosto che a settori produttivi». [3]

I presupposti teorici di questa scelta metodologica sono fondamentalmente tre:
• i processi di apprendimento cognitivo fra diversi operatori e gli scambi di conoscenze scientifiche e tecniche – che favoriscono la diffusione dell’innovazione – avvengono più facilmente fra domini scientifico-tecnologici che non fra settori produttivi;
• le possibilità per le imprese sia di innovare e di fare networking fra di loro a fini produttivi (secondo logiche di cluster o distrettuali), sia di diversificare processi produttivi e prodotti sono tanto maggiori quanto più siano disponibili, localmente, delle conoscenze complementari (concetto di “related variety – approssimativamente traducibile come “varietà interrelate” – che è davvero, a livello teorico, uno degli elementi distintivi del paradigma RIS3); [4]
• gli stessi processi di cross-fertilisation fra “ambiti scientifico-tecnologici” e settori di attività, considerati sempre più fondamentali per innescare processi virtuosi di sviluppo strutturale basati su ricerca scientifica, innovazione e creatività, sono tanto più probabili ed efficaci quanto più, all’interno di un dato territorio, sono interrelati fra di loro gli ambiti di conoscenza. [5]

Immagine ex Pixabay

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Un secondo aspetto metodologico innovativo è stata la previsione da parte della Guida della Commissione di un particolare processo di selezione dei “domini scientifico-tecnologici” e delle priorità di intervento più in linea con punti di forza e di debolezza degli ecosistemi innovativi regionali, denominato “processo di scoperta imprenditoriale” (Entrepreneurial Discovery Process – EDP). Tale processo, che si ispira ai principi della “open innovation”, pone al centro del percorso di analisi preliminare e di formulazione delle RIS3 giudizi e indicazioni dei principali operatori economici degli eco-sistemi innovativi, in primo luogo gli imprenditori. Gli imprenditori e gli altri operatori privati, infatti, conoscono meglio dei policy-makers sia vincoli e opportunità dell’eco-sistema innovativo, sia strozzature delle dinamiche competitive locali. Va privilegiato, quindi, un approccio bottom-up alla definizione del disegno delle strategie di sostegno alla R&I e di sviluppo strutturale dei territori interessati. Un siffatto processo è volto in primo luogo ad ovviare a una delle principali criticità delle strategie innovative del passato, ossia il fatto di essere poco “business driven”. Secondo Iacobucci (2017), le Regioni italiane hanno gestito questo processo, in genere, con una certa difficoltà.

A mio modesto avviso, i policy-makers regionali, prendendo spunto, fra l’altro, da alcuni contributi recenti di rinomati esperti italiani di politiche regionali (Camagni, Capello, Iacobucci) un po’ critici sull’attuazione di questo paradigma, dovrebbero valutare con estrema attenzione tre fattori fondamentali per garantire l’efficacia delle RIS3 regionali (in parte già accennati):

1. le Regioni italiane hanno davvero individuato in modo pertinente dei “domini scientifico-tecnologici” o, per vari motivi, in primo luogo la mancata disponibilità di una tassonomizzazione dei possibili domini, hanno incontrato delle difficoltà metodologiche e hanno sovrapposto domini scientifico-tecnologici, settori produttivi e, in alcuni casi, autentiche filiere produttive?

2. Come migliorare i processi di EDP e renderli realmente dei processi di policy making allargati, includendo anche cittadini/utenti e, quindi, recependo integralmente l’approccio della c.d. “quadrupla elica”? [6]

3. Come si può valutare in modo pertinente l’impatto sui processi di innovazione e sullo sviluppo strutturale di un dato territorio – per semplicità una regione NUTS II – delle RIS3? La domanda non è affatto peregrina, in quanto le RIS3 sono semplicemente degli approcci metodologici alla formulazione delle politiche pubbliche e non dei programmi pluriennali di spesa, in cui sono indicate puntualmente sia le azioni da implementare, sia le relative dotazioni di finanza pubblica. A me pare che questo sia un aspetto ampiamente trascurato, anche nella Guida sul monitoraggio delle RIS3 citata all’inizio del post (e molto problematico). Facendo riferimento alla RIS3 della Regione Lazio, che è quella che conosco meglio, posso dire che, non a caso, l’impostazione dei processi di monitoraggio e la scelta degli indicatori più pertinenti, quantunque metodologicamente fondate, sono tuttavia chiaramente riconducibili alle scelte generali in materia di monitoraggio e di indicatori fatte usualmente per monitorare e valutare i Programmi Operativi Regionali (POR). Sono assolutamente adatte per monitorare e valutare dei POR e il loro impatto, ma non sono direttamente applicabili per valutare le RIS3.
Come cercherò di spiegare nei prossimi post, a mio avviso, le RIS3 sono documenti di indirizzo strategico metodologico e non sono dei programmi pluriennali di spesa. Le RIS3 regionali, pertanto, hanno degli obiettivi diretti diversi da quelli dei Programmi pluriennali di spesa cofinanziati dai Fondi Strutturali, inclusi i POR FESR regionali. [7]

Alla luce di queste specificità di non poco conto, ancor prima di delineare il piano di monitoraggio e/o il “disegno di valutazione” delle RIS3, bisognerebbe interrogarsi un po’ di più su quali siano i loro obiettivi distintivi.

*************

[1] Il paradigma RIS3 affonda le radici in una serie di studi implementati nella seconda metà dello scorso decennio dalla DG Ricerca della Commissione Europea, ai quali hanno dato contributi significativi esperti di fama internazionale quali Dominique Foray, Paul David ed altri che hanno fatto parte del “Knowledge for Growth” Expert Group della DG Ricerca. Oltre alle Guide citate, fra i contributi più rilevanti inerenti questo paradigma si possono citare:
European Commission (2016), Implementing Smart Specialisation Strategy. An Handbook, Luxembourg.
Foray D. (2015), Smart Specialisation. Opportunities and Challenges for Regional Innovation Policy, Routledge, London
Foray, D., van Ark B. (2008), Overview on Knowledge for Growth: European issues and policy challenges, in Knowledge for Growth. European Issues and Policy Challenges, p. 6-15.
McCann, P. Ortega-Argilés R. (2011), Smart specialisation, regional growth and applications to EU Cohesion Policy, Economic Geography Working Paper, Faculty of Spatial Sciences, University of Groningen.

Per maggiori informazioni e per scaricare altri contributi metodologici, si rimanda al portale:
http://s3platform.jrc.ec.europa.eu/

Immagine ex Pixabay

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Questo paradigma, tuttavia, ha rapidamente acquisito credito oltre i confini europei, come dimostra il corposo rapporto di ricerca dell’OCSEInnovation-driven Growth in Regions: the Role of Smart Specialisation del 2013.
[2] Le condizionalità ex ante dei Fondi SIE sono una delle principali innovazioni della corrente programmazione. In estrema sintesi, esse costituiscono un vincolo “costruttivo” nella definizione degli Accordi di Partenariato nazionali e dei Programmi cofinanziati dai Fondi SIE. Per la prima, infatti, volta le Autorità di Gestione dei Programmi, in sede di formulazione del disegno strategico dei Programmi e nella scelta delle priorità di investimento, hanno dovuto preoccuparsi anche di formulare, se non esistenti, dei piani settoriali per ciascun Obiettivo Tematico (OT) dei Fondi SIE.
In Italia, e non solo, nelle precedenti programmazioni è emerso chiaramente come in parte i ritardi registrati nell’attuazione finanziaria dei Programmi pluriennali cofinanziati dai Fondi dell’UE fossero riconducibili all’assenza di piani settoriali pluriennali a livello nazionale e regionale.
Il legislatore europeo, pertanto, ha ritenuto opportuno condizionare l’approvazione dei Programmi e la loro attuazione alla predisposizione, da parte delle AdG, di piani settoriali (nazionali e/o regionali) che potessero, fra l’altro, fare da traino all’attuazione e alla spesa dei Programmi cofinanziati dai Fondi SIE.
L’art. 19 del Reg. (UE) N. 1303/2013 dispone infatti che “gli Stati Membri adempiono a tali condizionalità ex ante entro il 31 Dicembre 2016 e riferiscono in merito al loro adempimento al più tardi nella Relazione Annuale di Attuazione nel 2017”.
Per maggiori delucidazioni si veda il mio contributo: Bonetti A., Politiche pubbliche e finanziamenti per la Ricerca e l’Innovazione in Italia: la forte influenza delle politiche strutturali europee, Centro Studi Funds for Reforms Lab, Policy Brief 2/2017, aprile 2017.
Si vedano anche: Polverari L. (2016), The implementation of Smart Specialisation Strategies in 2014-2020 ESIF Programmes: turning intelligence into performance, IQ-NET Thematic Paper 39(2), EPRC, University of Strathclyde, Glasgow; Sabatini M. (2015), Prime scelte di programmazione in materia di sostegno dei sistemi produttivi nei POR FESR 2014-2020 del Mezzogiorno, “Rivista Economica del Mezzogiorno”, n. 1-2 2015

[3] Cfr. Iacobucci D. (2017), La Smart Specialisation Strategy nelle regioni italiane, in: Cappellin R. et al. (2017), Investimenti, innovazione e nuove strategie di impresa. Quale ruolo per la nuova politica industriale e regionale, ebook EGEA, pp. 101-114.

[4] Il concetto di “related variety è spiegato molto bene nella RIS3 della Regione Umbria (v. pp. 45-46) nei seguenti termini: «Un altro concetto assunto alla base della Strategia di Smart Specialisation è quello inerente alla “related variety”. Secondo tale approccio, ai fini dello sviluppo delle capacità di scambio e apprendimento fra imprese appartenenti ad ambiti tecnologici diversi di un territorio deve esserci un grado „ottimo‟ di diversità: imprese troppo simili avrebbero poco da scambiare; imprese troppo diverse non troverebbero sufficiente terreno comune per lo scambio e l’apprendimento. Gli effetti maggiori, in termini di apprendimento, innovazione e crescita si ottengono quando le strutture produttive territoriali sono caratterizzate da attività variegate, ma con possibilità di scambio e interconnessioni che riguardano non solo i tradizionali rapporti di fornitura (filiera) ma anche le basi di conoscenza tecnologica e di mercato applicabili nelle diverse produzioni. Questo si realizza attraverso tre meccanismi: lo sviluppo di dinamiche imprenditoriali (spin-off), la mobilità del lavoro ed, infine, la formazione di network collaborativi tra imprese (reti corte e lunghe)».
[5] La letteratura in materia è ormai sconfinata. Fra i contributi più significativi, si segnalano:
Asheim B.T., Boschma R., Cooke P. (2011), “Constructing Regional Advantage: Platform Policies Based on Related Variety and Differentiated Knowledge Bases”. Regional Studies, 45, 7: 893-904.
Boschma R. (2005), “Proximity and Innovation. A Critical Survey”, Regional Studies, vol. 39, n. 1, pp. 61-74
Boschma R. (2017), “Relatdness as driver of regional diversification: a research agenda”, Regional Studies, vol. 51, n. 34, pp. 351-364
Boschma R., Frenken K. (2006), “Why is Economic Geography not an evolutionary science? Towards an Evolutionary Economci Geography”, Journal of Economic Geography, vol. 6, n. 3, pp. 273-302
Boschma R., Iammarino S. (2009), “Related variety, trade linkages and regional growth in Italy”, Journal of Economic Geography, vol. 85, n. 3, pp. 289-311

[6] Secondo questo approccio nella formulazione delle politiche pubbliche andrebbero inclusi non solo decisori pubblici, Università e centri di ricerca e le imprese (“tripla elica”), ma anche i cittadini-utenti.
[7] Gli esperti di scienze politiche, in genere, concordano sull’articolazione del ciclo di formulazione delle politiche pubbliche in tre fasi:
• definizione dell’agenda di policy (definizione dei problemi da risolvere e delle scelte pubbliche per affrontarle);
decision making (fase in cui le scelte pubbliche vengono ufficialmente adottate tramite processi deliberativi formali);
• implementazione (e monitoraggio e valutazione per apprendere dall’esperienza e migliorare successivamente le scelte pubbliche).
Per una spiegazione molto chiara, si veda: Lippi A. (2007), La valutazione delle politiche pubbliche, IlMulino, Bologna.

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