La valutazione dell’impatto sociale. Costa, ma fa bene anche alle organizzazioni

La valutazione dell’impatto sociale. Note su un interessante articolo del collega di FVH Christian Elevati

Questo contributo muove da un paio di lavori – uno “collettivo” e più incentrato su aspetti metodologici e uno più divulgativo – del collega del network Fundraising Virtual Hub (FVH) Christian Elevati. [1]
Nel contributo più divulgativo, pubblicato sul blog di Elena Zanella, “regista e capitano” di FVH, Elevati rimarca che «in Italia è finalmente maturo il momento per affrontare la questione della valutazione di impatto sociale in modo convinto e professionale» e si chiede “chi ha paura della valutazione dell’impatto sociale?”.

banner_copertina_VARIE5Il collega Elevati, opportunamente, evita di tracciare un identikit di organizzazioni che potrebbero avere paura della valutazione di impatto sociale, preferendo soffermarsi su quali siano le criticità, a livello di singole organizzazioni e di intero terzo settore, che potrebbero emergere nel momento in cui questa si diffondesse anche in Italia come prassi ordinaria presso tutte le organizzazioni e imprese a vocazione sociale.

Sono anche io dell’avviso che sia ampiamente opportuno che il ricorso alla valutazione di impatto sociale diventi parte della quotidianità di tutte le organizzazioni non profit. In questa luce, aggiungo, la prevista istituzione della Fondazione Italia Sociale potrebbe essere molto importante a tal fine, qualora essa adottasse stringenti criteri di valutazione delle proposte di progetto, fra i quali venisse inserito, tra quelli obbligatori, anche l’inclusione di un rigoroso “disegno di valutazione” degli impatti sociali previsti. [2]

A mio modesto parere, la richiesta alle organizzazioni mission-driven di produrre delle valutazioni sul loro impatto sociale ha due effetti positivi principali sulla loro efficienza generale e sulla loro capacità di conseguire l’obiettivo sociale (obiettivo in genere indicato come qualificante nel loro statement di missione):
• le spinge/costringe a migliorare l’organizzazione e il sistema di gestione interno, in quanto una rigorosa valutazione dell’impatto sociale delle organizzazioni può facilmente portare alla luce dei loro limiti operativi (anche Elevati rimarca questo aspetto);
• le incentiva a coinvolgere maggiormente i beneficiari (portatori di bisogni da soddisfare, ma anche di idee utili su come risolverli) nella stessa formulazione dei progetti (qui, ovviamente, riecheggia l’annosa questione della formulazione dei progetti “per obiettivi” – anche valorizzando le indicazioni dei beneficiari – piuttosto che “per attività”).

Gli effetti positivi sulla performance organizzativa

A mio modesto avviso, un ricorso sistematico alla valutazione dell’impatto sociale e della loro capacità di raggiungere in modo efficace gli obiettivi di missione, spingerebbe tutte le organizzazioni a superare uno dei principali “fallimenti del volontariato”, come individuati da Lester Salamon (1987), ossia un certo “dilettantismo”, che interessa, in genere, soprattutto le organizzazioni mission-driven. [3]
Sovente, peraltro, questo fattore di inefficienza si somma a quelle tipiche forme di autocompiacimento che possono colpire nel corso del tempo tutte le organizzazioni, rendendole sempre meno aperte agli stimoli esterni del cambiamento tecnologico e sociale e a quelli dei destinatari delle loro attività (stimoli del mercato nel caso di imprese commerciali). I rischi che le organizzazioni perdano la spinta innovativa e, di riflesso, tendano progressivamente a peggiorare in termini di performance gestionale – rischi etichettati nella letteratura manageriale come “paradosso di Icaro” – sono particolarmente accentuati fra le organizzazioni di successo e quelle mission-driven. [4]

L’esigenza di un maggiore coinvolgimento dei beneficiari nella formulazione dei progetti e del “disegno di valutazione”

La valutazione sistematica dell’impatto prodotto sui beneficiari dovrebbe incentivare organizzazioni non profit e imprese a vocazione sociale a superare un altro limite in genere alquanto diffuso fra le organizzazioni mission-driven, ossia la bias verso la soluzione proposta, piuttosto che verso le esigenze e le problematiche dei loro beneficiari. Si spera, infatti, che la richiesta di rigorose valutazioni sull’impatto prodotto, le induca a tenere maggiormente in considerazione nella formulazione dei progetti le indicazioni dei loro beneficiari, perché solo coinvolgendo questi sia nella fase di formulazione dei progetti, sia in quella di valutazione in itinere ed ex post degli effetti si possono implementare progetti che “possano fare la differenza”.
La stessa Acumen che, in passato, ha contribuito fortemente a fondare metodologicamente il c.d. Impact Reporting and Investment Standards (IRIS), nel 2014 ha lanciato un nuovo approccio alla valutazione dell’impatto delle imprese sociali – la c.d. “lean data” initiative – in cui, tra l’altro, i feedback degli utenti sono centrali nella misurazione dell’impatto sociale. [5]

Si tratta di un approccio ancora in fase sperimentale, ma probabilmente è attualmente uno di quelli più innovativi e può consentire anche di ridurre i costi non indifferenti dell’applicazione di metodi rigorosi di valutazione dell’impatto sociale. Merita, pertanto, un post ad hoc che conto di pubblicare il prossimo 25 settembre. [6]

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[1] Christian Elevati si occupa da svariati anni di fundraising, formulazione e valutazione di progetti e diritti umani. Lo ringrazio per avermi messo a conoscenza del davvero “inspiring” aforisma di Martin Luther King, con cui egli chiude, magistralmente, il suo post.
I lavori esaminati sono: Elevati C. (a cura di), Contributi all’interpretazione del nuovo quadro logico di EuropeAid, luglio 2016, disponibile sul sito di Info Cooperazione; Elevati C., Chi ha paura della valutazione dell’impatto sociale?, post sul blog di Elena Zanella (luglio 2016).
Su questo tema si vedano anche due contributi metodologici recenti, che testimoniano la crescente attenzione anche in Italia per la misurazione dell’impatto sociale, di Montesi (esperto di Human Foundation) e di Impronta Etica (in collaborazione con SCS Consulting):
Montesi F. (2016), Dentro la scatola nera della valutazione dell’impatto sociale, Roma, Human Foundation
Impronta Etica-SCS Consulting (2016), Le Linee Guida per la Misurazione dell’Impatto Sociale. Una Guida pratica per le organizzazioni.
Il nostro network Fundraising Virtual Hub condividerà alcune riflessioni su questo tema nel corso del workshop “Fundraising e CSR: opportunità e criticità” inserito nell’ambito dell’edizione annuale del “Salone della CSR e dell’Innovazione Sociale”, che si terrà a Milano il 4 e 5 Ottobre.
fundraising_csr_ws_milano[2] L’istituzione della Fondazione Italia Sociale è prevista dall’art. 10 della Legge Delega per la Riforma del Terzo Settore che stabilisce che essa ha «lo scopo di sostenere, mediane l’apporto di risorse finanziarie e di competenze gestionali, la realizzazione e lo sviluppo di interventi innovativi da parte di enti del terzo settore, caratterizzati dalla produzione di beni e servizi con un elevato impatto sociale e occupazionale».
[3] Sui limiti operativi ed inefficienze delle organizzazioni senza scopo di lucro e sui rischi che quelle che traggono la maggior parte delle entrate da convenzioni e commesse pubbliche possano degenerare in forme di “shadow state” si vedano:
Salamon L. (1987), Of market failure, voluntary failure and the third party government: toward a theory of government-nonprofit relations in the modern Welfare State, in ‘Journal of Voluntary Action Research’, vol. 16, n. 1-2.
Ranci C. (1994), Il terzo settore nelle politiche di welfare in Italia. Le contraddizioni di un mercato protetto, in “Stato e Mercato”, n. 42, pp. 323-361.
Wolch J. (1990), The shadow state; government and voluntary sector in transition, The Foundation Centre, New York.
[4] Il neologismo “Icarus paradox” è stato coniato da Danny Miller all’inizio degli anni Novanta in dei contributi volti a spiegare l’apparente paradosso di imprese di successo che, nel corso del tempo, tendono a perdere quote di mercato e/o escono dal mercato, a causa di processi di inerzia ampiamente riconducibili a quegli stessi fattori che, inizialmente, erano stati alla base del loro successo.
Fa riferimento ovviamente all’Icaro della mitologia greca che prima riesce a volare grazie alle ali di cera e, poi, precipita dopo essersi avvicinato troppo al sole che, facendo scogliere la cera, distrugge quello che precedentemente era stato il fattore alla base del successo di Icaro. Cfr. Miller D. (1992), The Icarus paradox: how exceptional companies bring about their own downfall, in “Business Horizons”, Jan-Feb, 1992, Vermeulen F. (2009), Businesses and the Icarus Paradox, in “Harvard Business Review”, March 2009.
[5] Su obiettivi e metodi del c.d. Impact Reporting and Investment Standards (IRIS) si veda il portale www.iris-standards.org.
Acumen è una charity fondata nel 2001 negli Stati Uniti, che finanzia progetti di imprenditoria sociale e di sviluppo soprattutto in contesti “difficili” dei paesi più arretrati del mondo. La sua missione è quella di “raccogliere donazioni per investirle in aziende, leader e idee che stanno cambiando il modo in cui il mondo combatte la povertà”. Per una presentazione dell’approccio di Acumen prima dell’avvio della “lean data” initiative si veda il contributo di Montesi richiamato sopra.
[6] Avrò il piacere di approfondire alcuni di questi temi nel corso della docenza al Seminario del CEIDA Riforme e nuovi modelli di finanziamento della PA (Roma, 22 e 23 novembre p.v.), che coinvolgerà quale docente anche la collega Elena Zanella.

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